Nell’appuntamento di oggi parliamo di imposta di successione e, in particolare, di quando sorge l’obbligo tributario in caso di eredità. Si tratta di un tema tornato alla ribalta grazie a una recentissima sentenza della Corte di Cassazione – la n. 18252 del 4 luglio 2025 – che ha ribadito un principio chiave: l’imposta di successione scatta anche se l’eredità non è ancora stata accettata. In altre parole, il fisco considera imponibile una successione già dal momento in cui si viene chiamati a ereditare, anche se non si è ancora formalmente accettato.
La sentenza in questione (Cass. civ. Sez. Tributaria, 18252/2025) è nata da un caso concreto abbastanza particolare. Immaginate: Tizio muore, e nel suo testamento nomina erede il fratello Caio. Però Caio muore a sua volta il giorno successivo, senza aver ancora accettato l’eredità del fratello. A questo punto, i figli di Caio si trovano chiamati a succedere allo zio (cioè a Tizio) per rappresentazione (subentrano al posto del padre defunto). Essi sostengono di non dover pagare l’imposta di successione sull’eredità dello zio, dato che il loro padre non aveva mai accettato quella eredità. Vi sembra un’argomentazione plausibile? Eppure la Cassazione ha deciso diversamente.
La Corte di Cassazione ha dato torto ai figli e ragione al Fisco, richiamando una distinzione fondamentale: chiamata all’eredità vs accettazione dell’eredità. In ambito civilistico solo con l’accettazione si acquista la qualità di erede; ma sul piano tributario ciò che conta è la chiamata, cioè il fatto stesso che una persona sia designata come erede. Quindi l’obbligo di pagare l’imposta di successione nasce al momento dell’apertura della successione e della delazione ereditaria, indipendentemente dall’accettazione effettiva. L’accettazione dell’eredità rimane un atto rilevante per il diritto civile, ma per il fisco è sufficiente la vocazione ereditaria perché scatti l’imposizione.
E’ un aspetto cruciale. La delazione ereditaria – ovvero l’offerta dell’eredità al chiamato che avviene all’apertura della successione – attribuisce al chiamato il diritto di accettare o rinunciare all’eredità, senza che ciò comporti automaticamente l’acquisizione dei beni ereditari. Tuttavia, dal punto di vista fiscale questo dettaglio non impedisce l’imposizione: anche chi non ha ancora accettato l’eredità viene comunque considerato soggetto passivo d’imposta, a meno che non abbia espressamente rinunciato. Del resto, lo stesso Testo Unico sulle successioni (D.lgs. 346/1990) lo prevede chiaramente: “fino a quando l’eredità non è stata accettata, o non è stata accettata da tutti i chiamati, l’imposta è determinata considerando come eredi i chiamati che non vi hanno rinunziato”. Inoltre l’art. 28 del medesimo decreto impone ai chiamati all’eredità l’obbligo di presentare la dichiarazione di successione entro i termini di legge, salvo appunto il caso in cui abbiano già rinunciato.
Approfondiamo questo punto con il caso pratico della sentenza. Come avete capito, quando Caio (il fratello del de cuius) è morto senza accettare, la sua quota di eredità non svanisce: essa “resta in sospeso” ed entra a far parte dei diritti ereditari trasmissibili ai suoi successori. L’art. 479 c.c. infatti stabilisce che se il chiamato all’eredità muore senza averla accettata, il diritto di accettare si trasmette ai suoi eredi. Questo meccanismo di trasmissione della delazione ereditaria ha prodotto, nel nostro caso, una situazione di doppia successione: prima l’eredità di Tizio viene delata a Caio, e poi, non avendo Caio accettato, la stessa eredità viene delata ai figli di Caio. Ne risulta quella che i tecnici chiamano doppia delazione ereditaria.
E dal punto di vista fiscale, doppia delazione significa doppia tassazione. La Corte l’ha spiegato molto bene: la delazione dell’eredità dello zio in favore del fratello, seguita dalla delazione di quella stessa eredità in favore dei figli, legittima una doppia imposizione, anche se nessuno ha ancora accettato formalmente l’eredità. L’erede finale (in questo caso ciascun figlio di Caio) si trova dunque a dover pagare due imposte di successione: quella sull’eredità dello zio e quella sull’eredità del proprio padre. Va sottolineato, però, che ogni chiamato risponde dell’imposta limitatamente ai beni ereditari di cui entra in possesso, ai sensi dell’art. 36, comma 3, D.lgs. 346/1990. In pratica, il Fisco potrà chiedere a ciascun erede il pagamento delle imposte solo entro il valore di ciò che costui effettivamente eredita.
In sintesi, per il Fisco l’obbligo di dichiarare un’eredità e pagarne l’imposta scatta già con la chiamata all’eredità, non con l’accettazione. Dunque anche un chiamato che non ha (ancora) accettato deve presentare la dichiarazione di successione entro 12 mesi dall’apertura della successione e versare la relativa imposta, se dovuta. Fa eccezione soltanto il caso in cui egli rinunci formalmente all’eredità prima della scadenza di tale termine. Questo è precisamente quanto stabilisce l’art. 28 del D.lgs. 346/1990 e il relativo regolamento: il chiamato all’eredità diventa soggetto obbligato dall’apertura della successione, a meno che abbia già rinunciato validamente nei termini.
La Suprema Corte non ha fatto altro che confermare questi principi già presenti nella normativa e nella giurisprudenza. Nella sentenza, infatti, viene affermato che «in tema di imposta sulle successioni, presupposto dell’imposizione tributaria è la chiamata all’eredità e non già l’accettazione». Ne consegue – prosegue la Corte – che, allorché la successione riguardi anche un’eredità devoluta al dante causa e da costui non ancora accettata, l’erede è tenuto al pagamento dell’imposta anche relativamente alla successione apertasi in precedenza, la cui delazione sia stata a lui trasmessa ai sensi dell’art. 479 c.c.». In parole semplici: se un patrimonio vi “cade sulle spalle” perché il primo chiamato non l’aveva accettato, voi sarete comunque tenuti a pagare l’imposta su quel patrimonio (oltre all’imposta sulla vostra eredità diretta). La mancata accettazione non vi salva dal fisco, insomma, salvo abbiate rinunciato.
Cosa ci insegna tutto ciò, in pratica?
Primo consiglio: valutare sempre le conseguenze fiscali di tutte le chiamate all’eredità, anche di quelle che sembrano “in sospeso”. A volte si tende a non dare importanza a un’eredità se non si è manifestata l’accettazione, ma dal punto di vista tributario è un errore: anche le chiamate non gestite (cioè senza una decisione formale) possono comportare obblighi fiscali. Ignorare un’eredità senza né accettare né rinunciare non è una strategia; anzi, come abbiamo visto, può portare a tasse inattese.
Secondo consiglio: se non intendete accettare un’eredità, è fondamentale rinunciarvi formalmente entro i termini previsti. Solo una rinuncia espressa e registrata vi esonera dagli adempimenti fiscali su quella successione. In mancanza di rinuncia, infatti, trascorsi 12 mesi dal decesso scatterà comunque l’obbligo di presentare la dichiarazione di successione e potreste trovarvi a dover pagare l’imposta, pur non avendo mai accettato (come successo ai figli di Caio nel nostro caso). Dunque, famiglie e consulenti devono prestare molta attenzione alle scadenze: entro un anno dall’apertura della successione bisogna decidere se accettare o rinunciare, altrimenti il Fisco vi considererà comunque dentro l’asse ereditario.
Terzo consiglio: fare attenzione alle successioni multiple o ravvicinate in famiglia. Purtroppo capitano casi di decessi a breve distanza (si pensi a una situazione di parenti anziani o malati nello stesso periodo): in queste circostanze, lo stesso patrimonio può transitare da una persona all’altra in poco tempo, subendo una doppia tassazione (come è successo nel nostro esempio). Per evitare queste duplicazioni, conviene pianificare in anticipo. Ad esempio, se temete una “doppia successione” (genitore -> figlio -> nipoti in breve tempo), valutate con i consulenti se possa essere utile rinunciare all’eredità intermedia (quella del figlio), così che il patrimonio del nonno passi direttamente ai nipoti per rappresentazione, con un unico passaggio successorio. In questo modo si può evitare di pagare due volte l’imposta su quello stesso patrimonio. Ogni situazione va studiata caso per caso, ma il messaggio è: non trascurate gli effetti fiscali delle morti ravvicinate e informatevi sulle soluzioni possibili.
A proposito di imposta di successione, facciamo un veloce ripasso di aliquote e franchigie attualmente in vigore, così da avere il quadro completo. Le aliquote dipendono dal grado di parentela tra il deceduto e il beneficiario: per coniuge e parenti in linea retta (figli, genitori, etc.) l’aliquota è il 4%, da applicare però solo sul valore ereditato che eccede 1.000.000 € per ciascun erede; per fratelli e sorelle è il 6% sull’importo che eccede 100.000 € a testa; per gli altri parenti fino al 4° grado (nonni/nipoti collaterali, zii, cugini, ecc.) e gli affini fino al 3° grado l’aliquota è ancora 6% ma senza alcuna franchigia; infine per tutti gli altri soggetti (soggetti estranei non legati da parentela) l’aliquota sale all’8%, senza franchigia. Ricordiamo inoltre che, se tra gli eredi c’è una persona con disabilità grave riconosciuta (Legge 104/1992), essa beneficia di una franchigia più elevata: l’imposta si applicherà solo sul valore che supera 1.500.000 € per tale erede. Queste soglie di esenzione si applicano per ciascun beneficiario e non sono cumulabili tra loro, indipendentemente dal numero di successioni.