Parliamo di un tema cruciale per il presente e per il futuro dell’economia globale: la deglobalizzazione, un fenomeno che sta cambiando profondamente i mercati, le scelte delle imprese e, inevitabilmente, anche le decisioni di investimento.
Il mondo che conoscevamo si sta trasformando. Digitalizzazione, crisi ambientale, cambiamenti demografici e tensioni geopolitiche stanno riscrivendo le regole della convivenza economica e sociale. In questo contesto emergente, il concetto di deglobalizzazione – cioè il ripensamento dei legami economici tra le nazioni – sta diventando sempre più centrale. Ma cosa significa esattamente deglobalizzazione? E perché oggi è così importante capire cosa sta accadendo?
Per rispondere, dobbiamo partire dalla globalizzazione. Come spiegano Treccani e l’Unione Europea, si tratta di un processo che ha aperto le economie, abbattuto le barriere commerciali, aumentato la circolazione di beni, capitali, persone e idee. È stato un motore di crescita e benessere, ma ha anche generato squilibri: delocalizzazioni, precarizzazione del lavoro, dipendenze eccessive da alcuni Paesi produttori. Il prezzo nascosto di un mondo iper-connesso.
E proprio su questi squilibri si è innestata quella che gli esperti chiamano “iper-globalizzazione”. Un periodo – tra il 1990 e il 2008 – in cui si è spinto sull’acceleratore dell’integrazione mondiale con un entusiasmo forse eccessivo. L’economista Dani Rodrik fu tra i primi a mettere in guardia dai rischi di questo “fondamentalismo mercatista”. E la storia gli ha dato ragione: la crisi del 2008, le guerre commerciali, la pandemia e le tensioni geopolitiche hanno mostrato quanto fragile potesse essere un sistema economico privo di regole condivise e di visione strategica.
Dopo il 2008, abbiamo assistito a una fase di “slowbalisation” – cioè rallentamento della globalizzazione – e oggi si parla apertamente di deglobalizzazione. Cosa sta succedendo? Che governi e imprese stanno rivalutando i propri modelli produttivi, cercando filiere più corte, più locali, più affidabili. Eventi come la pandemia, la guerra in Ucraina, o le tensioni USA-Cina, hanno evidenziato i pericoli dell’eccessiva dipendenza da fornitori lontani o politicamente instabili.
S&P Global definisce la deglobalizzazione come un vero e proprio rischio geopolitico. Dopo il Covid e l’invasione dell’Ucraina, 24 Paesi hanno introdotto restrizioni alle esportazioni di beni alimentari essenziali. È un segnale chiaro: la globalizzazione non è più scontata. Le politiche protezionistiche sono in aumento, le supply chain si accorciano, le scelte industriali puntano sempre più su autosufficienza e resilienza. Ma tutto questo ha un costo, anche per gli investitori.
Infatti, meno globalizzazione significa maggiore localizzazione della produzione. E la localizzazione, lo sappiamo, è spesso più costosa. La globalizzazione aveva permesso di abbattere i costi di produzione sfruttando i vantaggi comparativi tra Paesi. Ma se riportiamo tutto in casa – reshoring – o nei Paesi vicini – nearshoring – rischiamo di perdere efficienza, aumentando i costi per le imprese e, alla lunga, anche per i consumatori. Una realtà che già si riflette nei margini aziendali e nei prezzi al dettaglio.
I governi stanno reagendo con leggi industriali sempre più protettive. Pensiamo al CHIPS and Science Act negli Stati Uniti o al Chips Act europeo: misure nate per stimolare la produzione nazionale di semiconduttori, dopo che la carenza globale ha paralizzato interi settori. Questi atti mostrano come oggi il principio guida non sia più il costo più basso, ma la sicurezza dell’approvvigionamento. Una svolta epocale, che sposta l’asse dagli incentivi all’efficienza a quelli per la resilienza.
Questa tendenza però non è solo politica, ma anche finanziaria. Una deglobalizzazione marcata può generare nuove pressioni inflazionistiche. Se la produzione costa di più e l’efficienza cala, i prezzi tendono a salire. Negli ultimi decenni la globalizzazione aveva agito come forza deflattiva: oggi stiamo tornando in un contesto dove inflazione e volatilità si accompagnano, rendendo la gestione patrimoniale molto più complessa.
Ma i dati S&P invitano alla cautela: la deglobalizzazione, per ora, è più retorica che fatto compiuto. Le catene produttive non si riorganizzano da un giorno all’altro, e molte imprese – specie quelle europee – continuano a operare su scala globale. Tuttavia, il rischio esiste. Ed è proprio la possibilità di una frammentazione del commercio internazionale a dover essere monitorata attentamente, perché potrebbe avere ripercussioni enormi sui modelli di crescita, occupazione e produttività.
Anche la BCE ha acceso i riflettori su questo tema. Due economiste, in un recente blog, si sono chieste se stiamo vivendo un semplice riassetto temporaneo o un vero cambio di paradigma. Analizzando le strategie delle imprese, hanno rilevato tre approcci: accumulo di scorte, diversificazione geografica dei fornitori e ricollocamento delle produzioni. Ma ognuno di questi comporta un equilibrio delicato tra costo e sicurezza, efficienza e stabilità. Nessuna scelta è neutra.
Il reshoring, ad esempio, può essere utile per evitare i rischi politici o logistici. Ma riducendo la diversificazione geografica si diventa più vulnerabili agli shock interni. Inoltre, riportare la produzione all’interno dei confini nazionali significa anche rinunciare ai vantaggi del commercio globale, rendendo più difficile l’adozione di innovazione e il trasferimento di know-how. Un costo che rischia di penalizzare proprio le economie più piccole e aperte, come quelle europee.
In definitiva, come investitori, dobbiamo imparare a muoverci in uno scenario meno lineare, dove l’efficienza non è più l’unico parametro e dove la politica torna a influenzare l’economia in modo diretto. Il mercato non è più “una macchina perfetta”, ma un ecosistema da leggere, analizzare, interpretare. E proprio per questo, il ruolo di un consulente oggi è diventato ancora più centrale: serve metodo, profondità e capacità di adattamento continuo.
Nel nostro lavoro, questo significa applicare un approccio preciso: partire da una valutazione complessiva del patrimonio, esaminare a 360 gradi le esigenze, trattare ogni obiettivo come un progetto unico, con soluzioni personalizzate. Significa anche usare strumenti avanzati per il controllo dei portafogli, valutare i rischi con attenzione e monitorare costantemente l’andamento degli investimenti, fornendo report dedicati e aggiornamenti costanti.