L’inflazione è un fenomeno che indica un aumento prolungato del livello medio generale dei prezzi di beni e servizi in un dato periodo.
Le sue ricadute sul tessuto economico hanno un riflesso immediato su tutte le attività e anche sulla nostra quotidianità. Dopo anni di assenza, siano entrati in un periodo in cui l’inflazione è in forte rialzo e, oltre a condizionare i mercati finanziari, ha un impatto diretto sulla vita di tutti i giorni.
L’inflazione ha un effetto negativo su tutti i membri di una società, anche se in misura diversa.
Secondo l’ultima analisi di Moneyfarm i consumi effettivi delle famiglie battono l’inflazione media del paniere Istat. In base ai 52 profili tracciati dalla società, l’inflazione percepita oscilla tra l’11,2% e il 17,1%. In termini di aumento del carovita, Moneyfarm stima che si possa tradurre in un aumento per le famiglie da 175 a 335 euro in più al mese.
I più colpiti sono i disoccupati con un’inflazione percepita del 17,1%. Quando il capofamiglia è un lavoratore dipendente, invece, l’inflazione percepita è del 12,1%. I disoccupati spendono il 54% dei loro risparmi in voci di spesa con un’inflazione superiore a quella media. Le famiglie con un lavoratore dipendente spendono, invece, in quelle stesse voci solo il 35%. Chi è disoccupato spende, in proporzione, molto di più in beni essenziali come energia e prodotti alimentari.
Chi, invece, può contare su entrate stabili come i lavoratori dipendenti, spende in modo più bilanciato, su più voci di consumo e risulta quindi meno colpito dall’inflazione.
Se si guarda ai nuclei familiari, sono i single ad avere la peggio con un’inflazione percepita del 15,7%. Per gli anziani soli, la situazione purtroppo è ancora peggiore: 16,4% è l’inflazione percepita.
All’estremo opposto si collocano le coppie con due figli con un’inflazione percepita del 12%.
Moneyfarm ha preso in esame anche la dimensione territoriale in cui vivono le famiglie ed è emerso che l’inflazione percepita è più alta nelle aree metropolitane, dove raggiunge il 15,1%.
Mentre le famiglie che vivono in piccoli comuni (sotto i 50 mila abitanti), hanno un’inflazione percepita del 12,8%. A livello geografico, infine, sono Liguria (13,1%), seguita da Piemonte e Puglia le regioni italiane con la più alta inflazione percepita. In fondo alla classifica troviamo invece Umbria, Sicilia e Molise (11,2%).
Anche il recente 49mo rapporto Svimez 2022 rileva come l’impatto dell’inflazione sulla popolazione non sia omogeneo.
Questo, presentato alla Camera dei deputati, calcola in valori assoluti 760mila nuovi poveri causati dallo shock inflazionistico (287 mila nuclei familiari), di cui mezzo milione al Sud.
In base alle stime Svimez, l’aumento dei prezzi di energia elettrica e gas si traduce in un aumento in bolletta annuale di 42,9 miliardi di euro per le imprese industriali italiane; il 20% circa (8,2 miliardi) grava sull’industria del Mezzogiorno, il cui contributo al valore aggiunto industriale nazionale è tuttavia inferiore al 10%.
La crisi inflazionistica – spiega Svimez – presenta rischi concreti per la sostenibilità dei bilanci di famiglie e imprese, con effetti più allarmanti nel Mezzogiorno. Con riferimento alle famiglie, a subire maggiormente le conseguenze dei rincari della bolletta energetica e dei beni di prima necessità sono i nuclei a reddito più basso, per i quali l’incidenza dei costi “incomprimibili” arriva a coprire circa il 70% dei consumi totali.
Queste famiglie sono maggiormente concentrate nel Sud Italia. In base ai dati Istat 2021, infatti, una famiglia su tre residente nel Mezzogiorno si colloca nel primo quintile di spesa equivalente, presentando una spesa media mensile minore o uguale alla spesa media del 20% più povero di tutte le famiglie italiane.
Nelle altre aree del paese, la percentuale è nettamente inferiore: le famiglie collocate nel primo quintile di spesa sono circa il 13% nel Nord e poco più del 14% nel Centro. Considerando l’inflazione acquisita per l’anno in scorso dell’8% per tutte le voci di spesa (rilevato come un dato previsionale Istat riferito a ottobre 2022), si osserva un incremento dell’8,9% per i beni alimentari e del 34,9% per la voce “abitazione, acqua, elettricità e spesa per combustibili”.
Proviamo, adesso, a capire se l’inflazione va sempre vista in modo negativo.
Realmente, l’inflazione può essere vista anche in una chiave positiva fin tanto mantenesse un livello moderato. Le motivazioni di ciò le possiamo così argomentabili.
Prima di tutto, la variazione dei prezzi deve essere positiva, perché si vuole evitare un’inflazione troppo vicina allo zero. La deflazione, un calo del livello generale dei prezzi, ha infatti effetti negativi sull’economia. Perché?
Se i prezzi saliranno rapidamente si tenderà ad anticipare gli acquisti, facendo così salire ancora di più i prezzi e causando, in tal modo, una perdita del potere d’acquisto. Se, invece, i prezzi scendono, accadrà esattamente l’opposto, ovvero si tenderà a ritardare gli acquisti in attesa di livelli più bassi. Ciò costringe chi vende ad abbassare i prezzi, causando degli effetti negativi lungo tutta la catena dalla produzione alla vendita, con delle ricadute sul mercato del lavoro.
In questo scenario, le Banche Centrali assolvono un ruolo importante.
Il banchiere centrale si trova nelle stesse condizioni di un medico che deve controllare le oscillazioni della pressione di un paziente. Se la pressione è troppo alta, bisogna farla scendere, perché altrimenti il paziente va incontro al rischio di patologie. Ma se la pressione è troppo bassa, il paziente non si alzerà neanche dal letto.
Entrambe le situazioni – pressione troppo alta o troppo bassa – vanno combattute, così come inflazioni o deflazioni eccessive. Da parte loro, le banche centrali investono grandi sforzi per mantenere il tasso di inflazione entro alcuni limiti ben consolidati, in modo tale che l’aspetto positivo dell’inflazione possa essere sfruttato e ridurre al minimo l’impatto degli aspetti negativi di esso. Una delle principali misure che si applica per contrastare la pressione inflazionistica è l’aumento dei tassi di interesse. Quando i tassi di interesse aumentano, le banche commerciali procedono ad aumentare gli interessi dei prestiti che rendono i loro clienti.
Facciamo un altro passo assieme e approfondiamo insieme, la relazione che esiste tra l’inflazione ed i mercati finanziari.
Il suggerimento che si trova sul sito di Banca d’Italia è il seguente: per proteggere i risparmi dall’inflazione è diversificare, cioè investire in più prodotti diversi tra loro (depositi, titoli di stato, azioni e obbligazioni delle imprese, materie prime, immobili, ecc.). Esso rispecchia in pieno ciò che il consulente finanziario, noi, consigliamo ai nostri clienti: diversificare è la parola chiave quando si parla di investimenti.
La diversificazione è infatti utile anche a contrastare gli effetti negativi di aumenti non previsti dell’inflazione. Quando l’inflazione aumenta, di solito aumentano anche i tassi di interesse e i rendimenti delle attività finanziarie.
È importante quindi investire, una parte dei propri risparmi, in strumenti con scadenza a breve termine o a tasso variabile (ad esempio, conti correnti e depositi a breve termine, Bot, titoli di Stato e altre obbligazioni a tasso variabile) e, soprattutto, in titoli di Stato indicizzati all’inflazione.
Avere una parte dei risparmi investita in strumenti a breve scadenza consente di reinvestirei fondi scaduti o che scadranno a breve a tassi che intanto sono aumentati con l’inflazione. Nel caso dei titoli a tasso variabile o indicizzati all’inflazione, l’aumento del rendimento è automatico appena tassi e inflazione iniziano a crescere.
Il secondo suggerimento è di stare sempre attenti ai rendimenti reali, quelli “veri”, che davvero mi permettono di far crescere nel tempo il potere di acquisto dei miei risparmi. Normalmente quando parliamo dei rendimenti (ad esempio, il tasso di interesse di un conto corrente o il rendimento di un titolo di Stato) ci riferiamo a rendimenti nominali, cioè al tasso di crescita del nostro capitale investito.
Per conoscere il tasso di crescita del potere di acquisto del nostro capitale dobbiamo sottrare ai rendimenti nominali il tasso atteso d’inflazione. Il capitale investito in uno strumento che rende il 3%, con un’inflazione del 2%, crescerà solo dell’1% in termini di beni e servizi che si potranno acquistare.
Si è già detto che l’inflazione erode il futuro potere d’acquisto dei risparmi e dei guadagni sugli investimenti fatti. Per quanto riguarda le obbligazioni, l’effetto di un aumento della suddetta, sopra un certo livello, viene trasmesso sui prezzi dei bond che scendono per l’aumento dei tassi di interesse, attraverso il quale le banche centrali contrastano la spirale inflazionistica.
Esistono degli strumenti a reddito fisso, le obbligazioni, che possono offrire protezione all’erosione del valore dell’investimento fatto. Per esempio:1. le obbligazioni a tasso variabile offrono cedole che aumentano e diminuiscono in linea con tassi d’interesse predefiniti;2. le obbligazioni indicizzate all’inflazione che sono esplicitamente collegate alle variazioni dell’inflazione.
Ciò detto, occorre un’attenta valutazione dello strumento in rapporto alle dinamiche del mercato perché il contesto in cui si manifesta l’inflazione e le cause che la sottendono possono essere diverse. Non esiste una ricetta che è sempre valida in qualsiasi momento.
Per quanto riguarda le azioni, invece, le considerazioni sono più complesse e, a tale proposito sono menzionate le considerazioni di alcune banche di investimento e asset manager.
Pictet AM ha classificato i periodi in base alla crescita del PIL trimestrale statunitense al di sopra o al di sotto della media mobile a 7 anni e all’inflazione, a seconda che l’inflazione fosse superiore a un tasso annuo del 2% e in aumento o, in alternativa, inferiore al 2% o in calo.