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“S” come Social

I criteri “social” dell’acronimo ESG si riferiscono alle attività di un’azienda e del loro impatto sociale.

Includono il rispetto dei diritti civili e dei lavoratori, gli standard di lavoro nella catena di approvvigionamento, la salute e la sicurezza sul lavoro e il rapporto con le comunità locali.

Riprendiamo l’approfondimento delle componenti dell’acronimo ESG

Con “social” si indicano i criteri con cui un’azienda si rapporta ai seguenti aspetti:

• relazioni con i dipendenti e politiche di genere adottate all’interno dell’impresa, in materia di pari opportunità, discriminazioni o pregiudizi alla partecipazione economica, politica e sociale di un qualsiasi individuo per ragioni connesse al genere, religione e convinzioni personali, razza e origine etnica, disabilità, età, orientamento sessuale o politico

• condizioni di lavoro e utilizzo della mano d’opera, atte anche a individuare eventuali situazioni di sfruttamento della stessa• rapporto con le  comunità locali, concernente le modalità con cui un’azienda si relaziona al tessuto sociale con cui interagisce o con le istituzioni presenti in termini di finanziamento di progetti che vanno a migliorare le condizioni di vita all’intero di una comunità

• salute e sicurezza, relative a  politiche mirate per la salute e la sicurezza dei dipendenti
Le metriche sociali, quindi, includono diversi ambiti che sono legati all’attività di un’azienda e a come essa si comporta non solo nei confronti dei suoi dipendenti, ma anche dell’impatto che genera sulla società in generale, attraverso le sue relazioni con clienti, fornitori e comunità locali.

Considerare tali aspetti è vitale non solo per limitare danni reputazionali ma, soprattutto, per creare benefici sociali. 

La componente “S” dell’acronimo ESG è forse quella che ha ricevuto meno attenzione negli ultimi anni, schiacciata tra le tematiche legate alla “governance” e quelle all’” environment”.

La pandemia ha però fatto sì che la sua importanza sia emersa a causa degli effetti provocati dalla diffusione del virus, che hanno investito gli aspetti economici, sociali e personali dei singoli individui e dell’intera società.

In questo contesto, il lockdown e le misure di limitazioni adottate hanno visto le aziende mostrare maggior consapevolezza del ruolo sociale che svolgono ed intervenire, ad esempio, nelle politiche di assistenza sanitaria verso i propri dipendenti.

In base a una indagine effettuata da un’importante società di gestione del risparmio estera, circa il 25% delle imprese ha aumentato i compensi per i dipendenti a più bassa remunerazione.

Come si misurano gli aspetti “social”?

Ci sono ancora molte criticità perché i temi da investigare sono molti e non tutti sono traducibili quantitativamente.

Molte aziende stanno cercando di redigerne una rendicontazione, e alcuni studi mostrano come un’azienda quotata con buone pratiche sociali, cioè attenta alle politiche nei confronti dei dipendenti, che assume sia uomini sia donne, che paga loro un salario minimo o dignitoso, che rispetta le regole di sicurezza, che ha una forte e condivisa cultura aziendale, ha un rendimento superiore.

In sintesi, laddove le aziende hanno una cultura forte e condivisa in tutta l’organizzazione, si assiste a una riduzione dei costi di finanziamento, al miglioramento del rating creditizio e a una diminuzione della volatilità del prezzo delle azioni.

Oggi più che mai  il fattore “social” ha assunto ancor più rilevanza per le aziende.

Esse sono chiamate a rispondere in modo adeguato alle esigenze dei dipendenti, prendendosi cura delle loro condizioni lavorative e della loro condizione sanitaria, a quelle dei fornitori, destabilizzati in alcuni casi dall’interruzione della catena di approvvigionamento e dalla crisi della domanda, a quella dei clienti che hanno bisogno di continuare ad avere fiducia nel marchio di un prodotto.

Un effetto poi legato alla crisi sanitaria è l’impatto sulle fasce della popolazione meno abbiente, che hanno meno risorse e strumenti a disposizione per contrastare le ricadute negative del virus, e che risultano quindi essere più fragili.

Uno studio fatto dall’organizzazione benefica OXFAM stima che le 1.000 persone più ricche del pianeta hanno recuperato le perdite causate dalla pandemia di coronavirus entro nove mesi, mentre potrebbe volerci più di un decennio prima che i più poveri del mondo si riprendano dagli impatti economici della pandemia.

La situazione risulta essere ancora più evidente se si pensa che, sostiene sempre OXFAM, i 10 uomini più ricchi del mondo hanno visto la loro ricchezza complessiva aumentare di mezzo trilione di dollari dall’inizio della pandemia.

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